
BERMUDA: MI HA DATO UNA COMUNITÀ IN UN MOMENTO IN CUI CERCAVO CONNESSIONE E MI HA RICORDATO CHE LA LEADERSHIP NON SIGNIFICA ESSERE LA VOCE PIÙ FORTE NELLA STANZA, MA PRESENTARSI, RIMANERE RESPONSABILI E SOSTENERE GLI ALTRI
“Mi ha dato una comunità in un momento in cui cercavo connessione e mi ha ricordato che la leadership non significa essere la voce più forte nella stanza, ma presentarsi, rimanere responsabili e sostenere gli altri”

Si ringrazia:
Gemma Godfrey
Presidentessa Fed. Bermuda Rugby Football Union
- La storia del movimento femminile in Bermuda
- Testimonianze
- Tempo di lettura 7′
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Bermuda è un territorio britannico d’oltremare nell’Atlantico settentrionale con circa 65.000 abitanti nel 2024 e una leggera maggioranza femminile. Le donne occupano il 25 % dei seggi parlamentari e partecipano alla forza lavoro per il 57,4 %, rispetto al 72,6 % degli uomini. Pur avendo alti livelli di istruzione e reddito, persistono differenze di genere nei ruoli di leadership e nella distribuzione del lavoro non retribuito.
(FONTE: data.unwomen.org; World Bank Gender Data Portal; IPU Parline; Government of Bermuda Statistics)
STORIA DEL PAESE
1. Quando è nato il movimento del rugby femminile nel tuo paese e qual è la sua storia? Com’è strutturato il rugby nel tuo Paese?
Il movimento del rugby femminile alle Bermuda è iniziato nella stagione 2006–2007, con le prime attività legate al touch rugby. Da lì si è sviluppata gradualmente una squadra femminile di rugby a contatto e, nel 2008, le Bermuda hanno disputato la loro prima partita internazionale di rugby femminile sotto l’egida della NIWIRA (poi confluita in Rugby Americas North, RAN). Da allora il programma è cresciuto costantemente, ponendo le basi per due decenni di partecipazione femminile sia nel rugby a contatto che nel touch. Il rugby femminile alle Bermuda è cominciato con partite informali di touch attorno al 2006, evolvendosi poi in una squadra strutturata. Le prime partite si disputarono contro squadre statunitensi in visita, durante eventi come l’Easter 7s. Quegli anni iniziali furono fondamentali per costruire fiducia, aumentare il numero di giocatrici e creare una prima struttura organizzativa. Nel 2008, la nazionale femminile delle Bermuda giocò la sua prima partita internazionale come parte della NIWIRA, segnando una tappa fondamentale per la legittimazione del rugby femminile a contatto sull’isola. Negli anni, lo sport ha affrontato le difficoltà tipiche dei piccoli contesti insulari: bacino ridotto di giocatrici, limitate risorse e lacune nello sviluppo giovanile. Tuttavia, è riuscito a crescere grazie a volontari appassionati, atlete rientrate in attività e giocatrici che hanno dato il loro contributo anche come allenatrici e dirigenti. Parallelamente è cresciuto anche il touch rugby, che ha offerto una formula più accessibile, utile a mantenere alta la partecipazione femminile. Nel 2025, il programma femminile si prepara a celebrare i 20 anni di rugby femminile alle Bermuda. Attualmente sull’isola ci sono quattro club principali — Renegades, Mariners, Police e Teachers — che partecipano a un campionato di touch non a contatto. A causa delle dimensioni ridotte del territorio e del numero limitato di giocatrici, il rugby a contatto femminile è stato spesso strutturato come programma centralizzato piuttosto che suddiviso nei club, e si concentra in gran parte sul rugby a 7, proprio per il bacino ristretto. Gli allenamenti sono gestiti principalmente a livello nazionale, con un unico gruppo condiviso di giocatrici, piuttosto che con un tradizionale campionato a club. Il touch rugby, invece, ha una struttura leggermente più decentralizzata, con squadre di club, aziendali e sociali che offrono campionati misti e femminili regolari. La Bermuda Rugby Football Union supervisiona lo sviluppo sia del rugby a contatto sia del touch, e sta crescendo l’impegno per reintrodurre un percorso giovanile strutturato per le ragazze a livello scolastico, così da garantire una crescita sostenibile.
2. Pensi che giocare a rugby abbia un impatto sociale per una donna nel tuo paese? Secondo te, cosa può offrire il rugby alle donne del tuo paese?
Assolutamente. Il rugby offre alle Bermuda uno spazio raro in cui le donne possono sfidare le norme sociali, costruire fiducia nel proprio corpo e trovare una vera comunità. Per molte donne, il rugby è stata la prima esperienza in uno sport di contatto, che non solo ha messo alla prova la percezione della propria fisicità, ma anche di ciò che le donne “dovrebbero” fare o sembrare nello sport. La camaraderie, la disciplina e la resilienza sviluppate attraverso il rugby hanno dato potere alle donne dentro e fuori dal campo — sia nei ruoli di leadership, nel mentorship, sia semplicemente nell’imparare a fidarsi della propria forza e della propria voce. L’impatto sociale è profondo in una piccola comunità come quella delle Bermuda, dove la visibilità conta. Vedere donne in spazi tradizionalmente dominati dagli uomini come il rugby contribuisce a ridefinire le aspettative per la prossima generazione. Il rugby può dare alle donne delle Bermuda un senso di appartenenza, scopo e fiducia che va ben oltre il campo da gioco. Offre un luogo in cui essere forti, far parte di una squadra e sviluppare capacità di leadership in un contesto che valorizza resilienza e carattere. Il rugby è anche uno strumento di connessione — tra contesti sociali, professioni e generazioni — e per molte donne diventa una rete di sostegno per tutta la vita. A un livello più ampio, il rugby aiuta le donne delle Bermuda a vedersi come atlete, leader e agenti di cambiamento. Per alcune giocatrici, il rugby ha avuto un impatto trasformativo, grazie a borse di studio e opportunità di studio all’estero che altrimenti non avrebbero avuto. In una cultura in cui lo sport femminile lotta ancora per pari visibilità e risorse, il rugby fornisce una piattaforma perché le donne possano essere viste, ascoltate e celebrate.
UN VIAGGIO NEL RUGBY
1. Quando hai iniziato a giocare a rugby e come hai scoperto della sua esistenza ?
Non ho giocato agonisticamente prima di trasferirmi alle Bermuda nel 2012. All’epoca, stavo ancora cercando di ambientarmi socialmente, essendomi appena trasferita sull’isola, e la maggior parte del mio tempo era dedicata all’allenamento nella boxe e nelle arti marziali, sport che avevo sempre amato e in cui avevo gareggiato nel Regno Unito. Poi un giorno, una giocatrice di una squadra femminile di un club locale mi chiese se avessi mai considerato di giocare a rugby. Le dissi: “Non proprio, ma mi piace colpire le cose”, e a quanto pare fu l’unica qualifica di cui avevo bisogno per essere invitata alla mia prima sessione di allenamento. Da quel primo allenamento, ne sono stata subito conquistata – e non solo dalla fisicità, ma dalle persone che ho incontrato sul campo e dal senso immediato di appartenenza. Da lì non mi sono più guardata indietro e mi sono fatta strada nella squadra nazionale delle Bermuda, rappresentando il paese e partecipando a diverse competizioni internazionali. Ripensandoci, lo sport è stato qualcosa intorno a cui avevo girato per anni ma su cui non ero ancora “atterrata”. Potrei essere arrivata tardi al gioco, ma una volta che l’ho fatto, è diventato una parte centrale della mia vita – e alla fine mi ha portato ad assumere ruoli di leadership che non avrei mai immaginato per me stessa. Ho incontrato per la prima volta il rugby al liceo nell’Inghilterra, quando il nostro insegnante di educazione fisica, un ex pilone, cercò di lanciare una squadra femminile – la prima nella nostra regione. Ero molto atletica a scuola e pronta a tutto, e con la mia altezza e corporatura, era desideroso di inserirmi come avanti. Anche alcune mie amiche si unirono, ma non appena i ragazzi lo scoprirono, iniziammo ad essere prese in giro per giocare a “uno sport da ragazzi”. A quell’età, sentirsi accettate sembrava più importante che spingere i limiti, e gradualmente, le ragazze smisero di presentarsi agli allenamenti, me compresa. L’ambiente locale in cui ci trovavamo in quel momento non era ancora pronto a supportare le ragazze negli sport di contatto, e onestamente, nemmeno noi lo eravamo. Ho avuto un’altra opportunità all’università, dove sono stata invitata a fare un provino per la squadra di sviluppo femminile alla Loughborough University, ma dato che stavo già gareggiando nelle arti marziali, non avevo ulteriore tempo da impegnarei. È stata un’altra opportunità persa, ma che ha piantato il seme per quando il rugby è tornato nella mia vita anni dopo alle Bermuda, quando finalmente ho avuto la fiducia e l’ambiente giusto per dare al rugby una vera possibilità.
2. Cosa ti ha insegnato il rugby che ha avuto un impatto sulla tua vita quotidiana? Puoi farmi un esempio di quando una mentalità da rugby ti è stata utile?
Il rugby mi ha insegnato la resilienza. Non solo fisica, ma emotiva. Mi ha spinto a confrontarmi con l’insicurezza e a spingermi oltre la zona di comfort, che si trattasse di imparare nuove abilità sul campo o di assumere ruoli di leadership fuori. Mi ha dato una comunità in un momento in cui cercavo connessione e mi ha ricordato che la leadership non significa essere la voce più forte nella stanza, ma presentarsi, rimanere responsabili e sostenere gli altri – anche quando è davvero difficile. Quando sono diventata Presidente della Bermuda Rugby Football Union, ho lottato duramente contro la sindrome dell’impostore. Non avevo la decennale carriera da giocatrice che molti dei miei predecessori avevano. Non ero un nome noto nei circoli rugbistici locali, e stavo assumendo un ruolo tradizionalmente ricoperto da uomini, in un momento in cui l’Unione stava emergendo da uno dei periodi più difficili della sua storia. La pandemia aveva interrotto i nostri programmi, prosciugato le nostre risorse e scosso la nostra comunità. Ma il rugby ti insegna a credere in te stessa, anche quando le probabilità sembrano contro. Mi ha insegnato che non devi essere la giocatrice più forte in campo. Devi solo essere disposta a fare il lavoro, subire i colpi e rialzarti. Questa mentalità mi ha aiutato ad assumere la leadership non perché avessi tutte le risposte, ma perché ero impegnata con la squadra, con la ricostruzione e con il servizio a qualcosa di più grande di me stessa. Mi ha ricordato che la vera forza non si trova nella certezza – si trova nel presentarsi comunque.
3. Puoi darmi 3 parole che connettono il rugby con la libertà?
Coraggio, Appartenenza e Servizio.
4. Cosa significa per te vivere in una terra di libertà?
Per me, significa avere lo spazio e il supporto per provare, fallire, crescere e contribuire senza paura di essere messa a tacere o respinta. Questo tipo di libertà non riguarda solo i diritti sulla carta. Riguarda la cultura. E nel mondo di oggi, dove il giudizio può essere immediato e spietato, dove le persone spesso hanno paura di parlare, di difendere gli altri o di uscire dagli schemi, quella cultura può essere difficile da trovare. Il rugby mi ha regalato un’esperienza diversa. Mi ha offerto uno spazio in cui potevo imparare facendo, dove gli errori facevano parte del processo e non erano qualcosa per cui essere punita. Dove il contributo era valorizzato, anche se imperfetto o non sempre in accordo con gli altri. Questa, per me, è vera libertà: la capacità di presentarsi pienamente, di essere ascoltata, di essere chiamata a rispondere senza essere zittita. Il rugby non è perfetto, ma modella un tipo di libertà di cui avremmo più bisogno. Una che valorizza il coraggio sulla perfezione e la comunità sulla conformità.
5. Quale oggetto ti rappresenta e perché? Qual è un aforisma che guida la tua vita?
Se fossi un oggetto, sarei una roccia, ma più specificamente, una gemma. Le ho collezionate fin da quando ero bambina, inizialmente incoraggiata dai miei genitori, forse perché pensavano che sarebbe stato carino dato che è il mio nome! Ma più recentemente, sono stata attratta dall’idea di qualcosa di bello e potente che si forma sotto pressione. Alcune gemme sono grezze, alcune sono levigate e alcune le oltre passeresti senza accorgertene se non sapessi cosa cercare. Quell’idea di essere una “gemma nascosta” ha una profondità reale per me, specialmente quando penso alla crescita delle donne nel nostro gioco. Non siamo sempre la scelta ovvia, non sempre le più rumorose nella stanza, ma quando ci viene data la possibilità e l’investimento, ci presentiamo con forza, resilienza e qualcosa di notevole e brillante da offrire, proprio sotto la superficie. Inoltre, in campo, ero spesso quella che faceva quello che chiamavamo il “gioco della roccia”, sfondando la linea, subendo il placcaggio, facendo il lavoro poco appariscente per far progredire le cose. Fuori dal campo, ho spesso assunto lo stesso tipo di ruolo nella leadership: non appariscente, ma radicata, coerente e costruita per portare avanti il gioco. Questo è qualcosa a cui aspiro per il rugby delle Bermuda.
Nel dubbio, “torna a te stessa”. È un promemoria silenzioso a cui ritorno spesso, specialmente nei momenti in cui mi sento fuori posto, incerta o sopraffatta. Che si tratti di assumere la leadership senza il curriculum tradizionale, di assumersi responsabilità durante i momenti difficili, o semplicemente di affrontare le aspettative riposte sulle donne nello sport, ho imparato che la chiarezza non deriva dal guardare all’esterno. Deriva dal radicarsi in chi sei, in ciò che rappresenti e nel motivo per cui hai iniziato. Il rugby mi ha aiutato a costruire quella bussola interna. Si tratta di fidarsi che, anche nel dubbio, sei ancora abbastanza. Che la tua voce tranquilla è ancora valida. Che la forza non consiste nell’avere tutte le risposte, ma nel sapere come tornare a casa da te stessa quando tutto il resto sembra poco chiaro. E quando il rumore diventa forte o la pressione aumenta, cerco di fare una pausa, ricalibrare e tornare alla persona che ha trovato appartenenza, coraggio e scopo attraverso il gioco.